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sabato 31 ottobre 2009

giovedì 29 ottobre 2009

All'improvviso.

Settembre è sempre stato il mio mese preferito.
Ricordo che ad agosto già mi fermavo alle vetrine di tutte le cartolerie per ammirare i nuovi modelli di diari che erano usciti. Ero la disperazione dei miei genitori, non c’era volta che si andava al supermercato che io non stessi almeno quindici minuti persa ad ammirare il reparto cancelleria. Le penne a casa mia non sono mai mancate, e nel mio modesto astuccio c’era soltanto l’imbarazzo della scelta, ma immancabilmente, quando capitava di andare a fare la spesa con i miei genitori, volevo una penna nuova, o una matita, o un rotolo di scotch, o un quaderno, o peggio ancora una gomma da cancellare. Quelle che avevo non mi bastavano mai, pensavo sempre che avrei trovato sicuramente una penna ancora più entusiasmante, mi divertivo a provarle tutte e posso dire di conoscere bene la scrittura di almeno tutte le pilot esistenti in Europa. D’estate certi riti si assopivano, di solito a giugno, quando finiva la scuola, avevo tre o quattro penne e per tutta la durata delle vacanze me le facevo bastare. Con il caldo mi prendeva una forte voglia di scrivere, ma il materiale non cambiava, mi accontentavo di quello che avevo comperato durante l’inverno e, ovviamente, avevo molta scelta. Ma era con settembre, con le prime giornate che si accorciano, con i tramonti virati sul rosa-viola, con le prime zuppe di fagioli o di verdura, con i primi pantaloni lunghi e le prime felpe, con quel preciso profumo nell’aria…era da quel profumo nell’aria che partiva la mia pulsione verso il reparto cancelleria. E amavo l’attesa che precedeva quei giorni, conoscevo il sapore delle cose che amavo e le attendevo con ansia, più del natale, più di qualsiasi festa, più di qualsiasi regalo. Niente era paragonabile a quel piacere.
Non ricordo quando fu, ma ci fu una prima volta in cui ascoltai Antonello Venditti, e sono quasi sicura che fu a casa di mio zio, nel suo studio, quel mitico studio super ordinato e profumato di macchina da scrivere, di cuoio e di sigarette.
E dove, ovviamente, erano custodite le mie penne preferite, a cui mi era proibito avvicinarmi. Forse per gioco, o forse no, ma nel ricordo vago di quel primo approccio posso ancora sentire la sensazione che provavo. Sentivo di essere di fronte a qualcosa di geniale, mi dicevo che le mie orecchie stavano ascoltando qualcosa che non avevano mai sentito prima, prevedevo, sentivo e sapevo inconsciamente che quelle note sarebbero rimaste incastrate nel mio dna e che da quel momento in poi non mi avrebbero mai abbandonata. Così mio zio, vedendomi tanto interessata e colpita da quelle canzoni, si prese l’impegno di registrarmi sei audio cassette, che contenevano un misto di canzoni di Antonello.
E’ stato un lampo, a volte basta un cenno debole a farti balzare il cuore in avanti e a farti sentire piccolissima. Guido la mia macchina, a volte mentre sono ferma ai semafori spio fuori dal finestrino e mi vedo riflessa nella vetrata di qualche negozio. Dio, come sono piccola…oppure è la macchina ad essere enorme…o entrambe le cose…ad ogni modo mi sento persa in questo bolide motorizzato.

E’ sempre all’improvviso che accadono le cose più sconvolgenti.

Al rosso di un semaforo stavolta non ho vetrine accanto a me in cui rimirarmi. Stavolta a distrarmi è la canzone che sto sentendo. E’ strano, è certo questa una canzone che mi ha sempre emozionata ma…stasera è diverso.
Bloccata, guido perché devo. Il destino vuole che le prime note del brano siano il sottofondo di me che passo proprio all’interno del mio quartiere natale, e di metro in metro l’emozione si impadronisce di me.
“…e migliaia di gambe e di occhiali di corsa sulle scale, le otto e mezza tutti in piedi, il presidente, la croce, il professore…”

E’ così.

Di singhiozzo in singhiozzo, guidando verso un tramonto fluorescente che scompare piano dietro i tetti del mio quartiere, ascoltando parole che avrò cantato cento volte nella mia stanza, e di lacrima in lacrima mi accorgo che il tempo passa più velocemente di quanto creda, e che sono passati quindici anni dal tempo in cui mi chiudevo in camera, davanti alla scrivania…Succedeva così, accendevo lo stereo e facevo i compiti ascoltando Antonello, fantasticando su un mondo che immaginavo solamente, restando sempre chiusa nel mio guscio di fogli e penne nuove, annusando tutto, descrivendo tutto.
Quindici anni…e accorgermi di essere più grande, guardarmi nello specchietto dell’auto e vedere i miei anni, nelle piccole pieghe che il viso manifesta e non può nascondere.
Sognavo tanto, quindici anni fa. Non facevo altro. Posso dire, oggi, di aver realizzato qualcosa di ciò che sognavo? Posso guardarmi riflessa nei vetri oscurati del mio macchinone ed essere orgogliosa di me? Perché piango mentre ci penso? Perché non riesco a smettere?

La vita mi fa un effetto che non so spiegare. Ma se sapessi spiegarlo avrei finito di scrivere, quello sarebbe il punto più alto dell’analisi dell’esistenza intera e perciò deve rimanere un mistero. La vita mi concede dei privilegi che spero di meritare, ma che mi sconvolgono. Cosa sono tutti questi specchi sparsi in giro per la strada? Dove sono i fiori ingenui, le mie pilot blu, i quaderni nuovi, le mie nike nere, i capelli corti, la donna nascosta, gli amori mai pronunciati e mai vissuti?

Piango se penso a quanto è meschino il mondo.
Ci sono giorni in cui mi sembra inutile starci, inutile viverci, inutile investirci denaro, forze, tempo. Io sono una penna. Accorcio le distanze, guido e ormai le lacrime sono salate di gioia. La lucidità mi spaventa, ho sempre preferito sognare, non ho mai preso più di 5 in matematica. Non sono diversa da quindici anni fa. Ancora aspetto settembre, lo so.
Con qualche segno in più sul viso, e i capelli più lunghi.

giovedì 15 ottobre 2009

Datato.

Mi faceva solo peso quel giornale costatomi soltanto un euro e venti centesimi.
Avrei voluto lasciarlo in eredità a qualcuno che si sarebbe seduto dopo di me al mio posto, sul treno, ma infine me lo sono tenuto tutto il giorno nella borsa, come a ricordarmi quanto ogni volta mi lamenti del volume che mi porto sulla spalla destra, e di quanta incoerenza risieda inguaribilmente in me, nel semplice atto di non cambiare la situazione, dato che basterebbe non portarsi così tanta roba appresso.
Alleggerire il carico è una cosa che non so fare. Credo di essere, invece, bravissima nel crearmi l’ingombro, e quella sensazione di pesantezza fisica propria di chi trascina un carretto pieno di mattoni. Ecco, se sapessi farlo mi disegnerei così, su un foglio bianco. Una ragazza curva, con le scarpe tipo Cat, le calze arruffate di lana che cadono sul bordo in pelle delle scarpe, il maglione di lana extra large, i jeans di due taglie più grandi e una cariola di cimeli, preoccupazioni, paranoie, il tutto ammassato disordinatamente all’interno. Come il contenuto di un cassetto che non apri da mesi, e che inevitabilmente prende la forma di una pianta carnivora, che divora il tuo ordine in un sol boccone.
Ad ogni modo, a Milano ci sono arrivata. Pesante o no, il treno l’ ho preso, ho ciondolato per bene la testa dormendo nel viaggio di andata, vergognata a dovere degli scattini elettrici che il mio corpo produce ogni volta che schiaccio un pisolino sul sedile verde del regionale, preso la metro giusta con la solita faccia di bronzo che mi ritrovo, assaporato l’aria elettrica della metropoli del nord che tanto amo, raggiunto il punto d’incontro previsto per le ore 14.30. Ed ero come sempre in anticipo. Ma neanche di molto, per una volta ho aspettato solo 5 minuti, il che significa per me già sgambettare cercando un appoggio comodo dove piazzare il mio sedere, mentre volgo lo sguardo a destra e poi a sinistra e poi davanti, in cerca del mio taxi-amico, domandandomi come sempre se arriverà in macchina o a piedi o in bus…e che ne so io…mica me lo ha detto…e allora mi guardo continuamente intorno, cercando di capire se lo scorgo tra la folla.
Milano mi piace da morire, perché appena scendo dal treno provo sempre la stessa sensazione di essere un numero, un numero solamente. Ma non nel senso riduttivo del termine. Mi piace l’idea che nessuno si curi veramente di me, che io possa camminare e non essere guardata, che sia naturale leggere sull’autobus senza che il tuo vicino di gomito non pensi che te la tiri perché leggi mentre viaggi, che sia ovvio camminare e pensare ai cavoli miei senza preoccuparmi di come sono vestita, dell’espressione che ho sul viso, di come tengo le mani in tasca. Qualche volta vorrei trasferire questa sensazione a Verona. Chissà se poi sarebbe la stessa cosa… pensandoci bene no, non vorrei che fosse così. Infondo Verona mi piace nel suo bigottismo incalzante, nel suo ingombrante andamento infossato, nel suo odore stantio, nella sua luce provinciale e affascinante, con i suoi ponti intrisi di domande e il suo porfido pulito. Ma cosa faccio qui, oggi? E’ un giovedì qualsiasi e ho preso un treno al volo per vedere se posso mettere a segno la prima parte di un lavoro che richiederà molto tempo. Mentre aspetto il mio amico, so già che il viaggio di ritorno sarà molto diverso da quello di andata.

Che cosa significa la parola “datato”?
Significa sorpassato, oppure semplicemente anziano? E ciò che è anziano non è necessariamente da buttare, anzi! Piuttosto è maturo, talmente maturo da poterti trasmettere concetti e visioni che tu, sbarbato come sei, non riesci nemmeno ad immaginare.
Ebbene, il corridoio di questo posto è lunghissimo. Mi ricorda a tratti quello di Shining, ma non perché è macabro, quanto perché tutto è stato lasciato come quando è stato costruito, non è stato cambiato il pavimento, non sono state cambiate le porte, credo che non venga tinteggiato da anni e i muri, come anche le finestre e la mobilia conservano il colore del tempo che passa, e che è inconfondibile.
Non ero mai stata qui prima d’ora, ci entro solo oggi. Mi lascio, per ora, attraversare dagli eventi. E’ solo quando mi siedo a scrivere che rielaboro il tutto. A volte penso che se non scrivessi non capirei fino infondo quello che faccio. Trascrivere i fatti mi da sicurezza, mi permette di valutare le cose, guardandole come se fossero disposte a ventaglio sulla scrivania.
Se potessi vivrei in studio di registrazione. E questo studio odora di pelle, di anime elette, di messaggi indecifrabili perché magici ed unici.
Mi chiedo se merito di passeggiare sopra queste piastrelle antiche di marmo grigio.
Forse dovrei smetterla di farmi domande, e dovrei godermi il momento. Qualcosa è cambiato, io sono cambiata.

Poi non ti sei voltato, e tenendo le mani appoggiate al volante della tua macchina, hai detto “non è troppo tardi, per te, al contrario sei solo all’inizio…è che ti hanno fatto credere che non fosse il tuo momento, ogni volta che ti sei proposta. Ma la verità è che eri solo in anticipo rispetto ai loro programmi…e non esiste colpa che tu possa darti, puoi solo migliorarti sempre e lavorare duro”.

Questo luogo è visibilmente datato.
Datato per me oggi significa puro.
Aggiungo un sinonimo al mio personalissimo vocabolario, e chissenefrega se qualcuno non è d’accordo.


domenica 11 ottobre 2009

L'assassino.

Compio passi piccoli, tanto che la mia mente non possa tradirsi ancora una volta.
Ero abituata a credere che la dolcezza pagasse sempre. Ben presto ho dovuto accorgermi che non è vero.
Sono state più le volte, e le posso contare distintamente, in cui ho pagato anche per questo.
Ci vuole del talento a schiacciare volontariamente una farfalla con il tacco, ci vuole del coraggio a non provare vergogna nel rialzare la scarpa da terra e non sentirsi morire.
Avevo capito come girava, il mondo, ma non volevo dargliela vinta. Ho sempre preferito fare finta di niente, porgendo un sorriso al mio peggior nemico, perdonando anche il più grave sgarro, considerando umane anche le anime che disumanamente hanno camminato in me.
E adesso che vorrei soltanto stringere, slego le mie dita dal tuo corpo ostile, e torno indietro nel mio guscio, là da dove sono venuta, cercando le prove inutili della mia innocenza, per consacrare l’ennesima delusione sulla bacheca dei ricordi, sapendo che non sarò mai più la stessa, mai più limpida, mai più celeste.

“ Poso la mia lama
un secondo di respiro
e poi colpirò
sono un assassino
non ne posso fare a meno
io ti finirò”


D.S.


martedì 6 ottobre 2009

Cosa sto ascoltando

  • Nuru Kane "Sigil"
  • Glen Hansard "Rythm and Repose"
  • Meanza/Milenkovic EP
  • Colore "Io la notte"

Cosa sto leggendo

  • Virginia Wolf "Una stanza tutta per se"
  • Daniel Pennac "Abbaiare stanca"
  • Thomas Mann "Cane e padrone/Disordine e dolore precoce/Mario e il mago"

Ultimi film visti

  • "Midnight in Paris" di Woody Allen
  • "Carnage"
  • "Ed Wood" di Tim Burton
  • "Amabili Resti"
  • "Il discorso del Re"
  • "Batman Begins"
  • "Shutter Island" di Martin Scorsese
  • "Australia"
  • "Il diavoll veste Prada"
  • "Toy Story 3"
  • "Man on Fire"
  • "Agora"
  • "Elizabeth"
  • "La prima cosa bella" di Paolo Virzì
  • "Il riccio"
  • "Profondo rosso" di Dario Argento
  • "Viola di mare"
  • "Febbre da cavallo"
  • "La ragazza che giocava con il fuoco"
  • "Le conseguenze dell'amore" di Paolo Sorrentino
  • "Momenti di gloria"
  • "Vincere"
  • "Appuntamento a Belleville"
  • "Angeli e Demoni"
  • "L'amore ha due facce"
  • "Pane e Tulipani"
  • "L'olio di Lorenzo"
  • "L'ultimo imperatore" di Bernardo Bertolucci
  • "Solaris" di Andrej Tarkovskij
  • "Wall-e" Disney Pixar
  • "The LIbertine"
  • "Il Decalogo" di Krzysztof Kieslowski
  • "La casa dalle finestre che ridono" di Pupi Avati