A volte perdo per strada il piacere di scrivere.
Conosco bene la sensazione che provo ogni volta che riverso i miei pensieri in un foglio bianco.
Ma è come se più spesso girassi al largo da quell’emozione, quel senso liberatorio di braccia in aria e salti nel vento, che solo il cuore di un artista vive, nell’esatto momento in cui posa la penna e sente di aver vomitato proprio tutto quello che aveva nel gozzo.
Non interessa se qualcuno leggerà. A chi scrive basta dare sfogo al proprio istinto, e tutto intorno prende già la forma che preferisce, quella morbida e consolatoria del distacco dal mondo, e che rimette tutto in ordine dentro se stesso.
E allora scrivo, e non mi importa più di niente e di nessuno, mi concentro solo sul movimento rotatorio della biro sulla carta, e calco più forte il solco, faccio acrobazie di parole e mi getto dentro al mio mare, mi specchio nei miei dubbi per risalire forte, attraverso a piedi nudi i vicoli oscuri delle mie incertezze e scrivo talmente tanto da non sentire più i pensieri.
E scrivo talmente tanto che, alla fine della corsa, non sento più niente, tranne il suono dolce del mio cuore.
www.veronicamarchi.it
martedì 24 novembre 2009
mercoledì 18 novembre 2009
Solo che allora fumare per noi era proibito.
Non si capisce perché così tanta differenza, eppure c’è. Non si capisce perché in una via del centro si paghino 3 euro per una tazzina di the neanche tanto buono, e a 500metri di distanza, in una via leggermente meno trafficata, la stessa cosa (se non cento volte meglio) costi la metà.
Non si capisce perché tutto giri al rovescio, e se ne parla a cena, con gli amici, con i parenti, con le persone che si incontrano anche solo per qualche minuto.
E’ sempre, o quasi, un argomento di conversazione: il costo della vita,
la difficoltà di capire il perché di certi divari assurdi, la diffidenza nei confronti di un futuro possibile, le differenze tra persone così simili e così distanti. Non si capisce più niente, e vivere in questo momento storico mi mette addosso un enorme senso di impotenza, una sensazione che 15 anni fa pensavo che non avrei mai provato.
15 anni fa ero alle scuole medie, l’altra sera mi sono rituffata in quel periodo come un pesce d’acqua dolce. Cena, quella con i compagni di quell’epoca, in un ristorante di una via centralissima. Una sera qualsiasi di dicembre si è trasformata in una serata indimenticabile, fatta di piccole e grandi sorprese, sussulti e ricordi che ancora sono vivi sulla mia pelle, cose che pensavo di aver dimenticato e che invece respirano ancora con me, solo che non le vedevo più tanto nitide perché non c’era più nessuno a rinnovarmene il sapore.
Lo ammetto, ci sono andata con la giusta dose di diffidenza, la mia, quella solita che mi contraddistingue. La mia freddezza iniziale ha lasciato quasi subito il posto al piacere di ri-conoscere persone frequentate tanto tempo fa, quando ancora non capivo con la testa ma soltanto con i sensi, quando tutto poteva ancora essere e si sognava la vita ad ogni angolo, in ogni forma.
Eravamo in 12, ne mancavano 10 e sinceramente la cosa mi ha rattristato un po’, ho provato pena per quelle 10 persone che non hanno saputo vincere la mia stessa diffidenza, che non hanno provato a pensare che quella sera si sarebbero potuti trovare di fronte qualcuno di diverso da 15 anni fa, e che il tempo passa per tutti, e che non necessariamente le stesse persone che ti prendevano in giro a quel tempo oggi lo avrebbero fatto ancora.
Ma tant’è…non sono venuti e non sanno cosa si sono persi.
A 12 anni non ero certo una compagnona. Stavo sempre nel mio guscio, non socializzavo quasi mai, mi sono persa un sacco di cose belle per colpa del mio carattere chiuso e paranoico, perciò in realtà a quel tempo avevo stretto amicizia solo con la mia compagna di banco Valentina. Il resto della classe, per me, erano solo tanti piccoli cervelloni da evitare, secchioni figli di papà che non avrebbero mai avuto niente a cui spartire con me. E sì, mi prendevano in giro per quello che facevo, perché lo facevo con strafottenza, con quella punta di altezzosità che io usavo come difesa, il mio scudo personale contro l’attacco ormonale di una massa di adolescenti puzzolenti e bravi a scuola.
Non so spiegare quando sia stato l’istante in cui è successo, forse è stato entrando nel ristorante che ho sentito l’odore buono del perdono. Stavo perdonando me, in quel momento, quella “me” che non stimo e che non amo. E quel “loro” che adesso comprendo.
Non volevo più andare via, la serata si era fatta densa di novità, scoprire le loro vite di adesso mi faceva sorridere, mi rendeva curiosa minuto dopo minuto, ma comunque la serata prima o poi doveva avere un termine. Siamo rimasti in cinque, ricordo. Io, Valentina e altri tre ragazzi, uno che ora vive in Danimarca, uno che ha un’azienda tutta sua, un altro che laureatosi da poco sta studiando ancora per diventare avvocato.
La mente gelida e il cuore caldo, le vie del centro desolate e parlanti, i piedi congelati e i salti dell’anima. Tutto questo si è chiuso con il rumore sordo della portiera della mia macchina, ad Arbizzano, con il sapore di sigaretta addosso (l’ultima che Valentina si è fumata prima di salutarmi)…lo stesso sapore che aleggiava nei bagni della scuola media Dante Alighieri.
Solo che allora fumare per noi era proibito.
Non si capisce perché tutto giri al rovescio, e se ne parla a cena, con gli amici, con i parenti, con le persone che si incontrano anche solo per qualche minuto.
E’ sempre, o quasi, un argomento di conversazione: il costo della vita,
la difficoltà di capire il perché di certi divari assurdi, la diffidenza nei confronti di un futuro possibile, le differenze tra persone così simili e così distanti. Non si capisce più niente, e vivere in questo momento storico mi mette addosso un enorme senso di impotenza, una sensazione che 15 anni fa pensavo che non avrei mai provato.
15 anni fa ero alle scuole medie, l’altra sera mi sono rituffata in quel periodo come un pesce d’acqua dolce. Cena, quella con i compagni di quell’epoca, in un ristorante di una via centralissima. Una sera qualsiasi di dicembre si è trasformata in una serata indimenticabile, fatta di piccole e grandi sorprese, sussulti e ricordi che ancora sono vivi sulla mia pelle, cose che pensavo di aver dimenticato e che invece respirano ancora con me, solo che non le vedevo più tanto nitide perché non c’era più nessuno a rinnovarmene il sapore.
Lo ammetto, ci sono andata con la giusta dose di diffidenza, la mia, quella solita che mi contraddistingue. La mia freddezza iniziale ha lasciato quasi subito il posto al piacere di ri-conoscere persone frequentate tanto tempo fa, quando ancora non capivo con la testa ma soltanto con i sensi, quando tutto poteva ancora essere e si sognava la vita ad ogni angolo, in ogni forma.
Eravamo in 12, ne mancavano 10 e sinceramente la cosa mi ha rattristato un po’, ho provato pena per quelle 10 persone che non hanno saputo vincere la mia stessa diffidenza, che non hanno provato a pensare che quella sera si sarebbero potuti trovare di fronte qualcuno di diverso da 15 anni fa, e che il tempo passa per tutti, e che non necessariamente le stesse persone che ti prendevano in giro a quel tempo oggi lo avrebbero fatto ancora.
Ma tant’è…non sono venuti e non sanno cosa si sono persi.
A 12 anni non ero certo una compagnona. Stavo sempre nel mio guscio, non socializzavo quasi mai, mi sono persa un sacco di cose belle per colpa del mio carattere chiuso e paranoico, perciò in realtà a quel tempo avevo stretto amicizia solo con la mia compagna di banco Valentina. Il resto della classe, per me, erano solo tanti piccoli cervelloni da evitare, secchioni figli di papà che non avrebbero mai avuto niente a cui spartire con me. E sì, mi prendevano in giro per quello che facevo, perché lo facevo con strafottenza, con quella punta di altezzosità che io usavo come difesa, il mio scudo personale contro l’attacco ormonale di una massa di adolescenti puzzolenti e bravi a scuola.
Non so spiegare quando sia stato l’istante in cui è successo, forse è stato entrando nel ristorante che ho sentito l’odore buono del perdono. Stavo perdonando me, in quel momento, quella “me” che non stimo e che non amo. E quel “loro” che adesso comprendo.
Non volevo più andare via, la serata si era fatta densa di novità, scoprire le loro vite di adesso mi faceva sorridere, mi rendeva curiosa minuto dopo minuto, ma comunque la serata prima o poi doveva avere un termine. Siamo rimasti in cinque, ricordo. Io, Valentina e altri tre ragazzi, uno che ora vive in Danimarca, uno che ha un’azienda tutta sua, un altro che laureatosi da poco sta studiando ancora per diventare avvocato.
La mente gelida e il cuore caldo, le vie del centro desolate e parlanti, i piedi congelati e i salti dell’anima. Tutto questo si è chiuso con il rumore sordo della portiera della mia macchina, ad Arbizzano, con il sapore di sigaretta addosso (l’ultima che Valentina si è fumata prima di salutarmi)…lo stesso sapore che aleggiava nei bagni della scuola media Dante Alighieri.
Solo che allora fumare per noi era proibito.
domenica 15 novembre 2009
Inconfondibile.
Riconoscerei a distanza la tua semplicità
Come musica lieve
E ascolterei le tue parole
E mi lascerei sorprendere
Così, così…dolcemente
Io dipingerei con i raggi del sole
Di domenica, la tua luce gentile
E dormirei distesa nel tuo mare candido
Che luccica negli occhi tuoi
Io ti regalerò sempre un sorriso in più
Perché il mio bene più grande è la tua allegria
E parlerò di cose che non sentirai
Perché l’amore ha il linguaggio dell’anima
E ti ringrazierò per questa libertà
Che anche a spiegarlo capire è impossibile
Soltanto chi sa guardare al di là del suo limite
Volare potrà
Conoscevi già ogni mia piccola cosa
E senza chiedere hai saputo vedere
Dove non è riuscito mai nessuno a scorgere
E te lo dirò
Ti abiterò
Io ti capirò
E non smetterò
Di vivere in te
Di conoscere
Di sentire che sei per me
Inconfondibile.
Come musica lieve
E ascolterei le tue parole
E mi lascerei sorprendere
Così, così…dolcemente
Io dipingerei con i raggi del sole
Di domenica, la tua luce gentile
E dormirei distesa nel tuo mare candido
Che luccica negli occhi tuoi
Io ti regalerò sempre un sorriso in più
Perché il mio bene più grande è la tua allegria
E parlerò di cose che non sentirai
Perché l’amore ha il linguaggio dell’anima
E ti ringrazierò per questa libertà
Che anche a spiegarlo capire è impossibile
Soltanto chi sa guardare al di là del suo limite
Volare potrà
Conoscevi già ogni mia piccola cosa
E senza chiedere hai saputo vedere
Dove non è riuscito mai nessuno a scorgere
E te lo dirò
Ti abiterò
Io ti capirò
E non smetterò
Di vivere in te
Di conoscere
Di sentire che sei per me
Inconfondibile.
giovedì 12 novembre 2009
sabato 7 novembre 2009
Chiaro.
Se tutto ciò in cui io mi riconosco
Riflette sempre ciò che sono
Il quadro appeso cade dal suo chiodo
E non c'è colla che lo possa riparare
Tempo al Tempo
La chiave nella serratura
Aspetto coraggio mi stendo
Mi slancio
Afferro il mio infinito, tremo
E' tutto più chiaro, al ritorno da un viaggio.
Riflette sempre ciò che sono
Il quadro appeso cade dal suo chiodo
E non c'è colla che lo possa riparare
Tempo al Tempo
La chiave nella serratura
Aspetto coraggio mi stendo
Mi slancio
Afferro il mio infinito, tremo
E' tutto più chiaro, al ritorno da un viaggio.
Casa è ovunque.
Cosa ci faccio qui?
Una stanza sconosciuta, pareti e spazi che non avevo mai visto, in casa un odore che non gradisco, e gente che non intuisco ma che apprezzo.
Seduta sul letto dell'amica che mi ospita, mi sento come disegnata a matita dentro ad un livello temporale astratto ed indefinibile.
Rimango, e immergo i piedi fino alle caviglie nel momento, per farmi andare bene ogni imprevisto, ogni singhiozzo che può presentarsi davanti a me, per non temere la novità, l'involucro estraneo in cui mi trovo.
Può diventare famigliare ogni cosa, se vissuta volontariamente come tale.
Ho sonno ma non dormo, però. Ma solo perchè in questa stanza le finestre non si chiudono bene, e il freddo entra infingardo fino alle ossa, come a ricordarmi che casa è ovunque.
E' solo tornando che trovi la strada.
Una stanza sconosciuta, pareti e spazi che non avevo mai visto, in casa un odore che non gradisco, e gente che non intuisco ma che apprezzo.
Seduta sul letto dell'amica che mi ospita, mi sento come disegnata a matita dentro ad un livello temporale astratto ed indefinibile.
Rimango, e immergo i piedi fino alle caviglie nel momento, per farmi andare bene ogni imprevisto, ogni singhiozzo che può presentarsi davanti a me, per non temere la novità, l'involucro estraneo in cui mi trovo.
Può diventare famigliare ogni cosa, se vissuta volontariamente come tale.
Ho sonno ma non dormo, però. Ma solo perchè in questa stanza le finestre non si chiudono bene, e il freddo entra infingardo fino alle ossa, come a ricordarmi che casa è ovunque.
E' solo tornando che trovi la strada.
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